PUBBLICITÀ DI INTIMO |
È indiscutibile che i media e la pubblicità facciano un uso improprio
del corpo femminile e del corpo maschile. Un atteggiamento piuttosto
diffuso, di fronte a questo problema, è quello critico verso
l’ipersessualizzazione che contraddistinguerebbe la nostra società.
A parlare in questi termini, di solito, sono donne che trasmettono di
sé un’immagine – legata non all’aspetto fisico o al modo di vestire, ma
piuttosto alle scelte lessicali, alle modalità di interazione, alle
idiosincrasie dialettiche – che suggerisce che ammettere pubblicamente
di aver toccato qualche volta un pene sarebbe per loro semplicemente
inconcepibile. Io invece i peni li tocco (è ampiamente documentato) e
con i meccanismi legati all’eccitazione sessuale ho parecchio a che
fare. Ritengo che la familiarità con tali meccanismi vada a costituire
un sapere pratico che, come tutti i saperi, pratici e non, si giova
della trasmissione pubblica, dello scambio e dell’evoluzione veloce che
di tale carattere pubblico è conseguenza.
Ora, una cosa di cui mi rendo facilmente conto è che la “sessualità”
che si vede sui cartelloni pubblicitari, nelle colonne di destra dei
quotidiani online ecc. non ha nulla, ma proprio nulla a che vedere con
la grammatica – anche psicologica – dell’effettiva eccitazione legata
alla sfera sessuale. Se io mi atteggiassi come una modella da cartellone
pubblicitario non solo farei malissimo l’attrice porno, ma soprattutto –
e sottolineo: soprattutto – farei il contrario dell’attrice porno. Non
sono semplicemente due direzioni diverse: sono due direzioni opposte,
che richiedono due approcci opposti e due tipi di tekne con finalità
opposte. Un indizio di tale carattere completamente antitetico è il
fatto che, mentre l’uso improprio del corpo da parte dei media e nella
pubblicità prospera, e prospera anche su internet e sui social network,
la pornografia invece è in crisi e rischia di scomparire, ed è censurata
e vista come il male assoluto dai circuiti pubblicitari mainstream sul
web e dai social network.
VALENTINA NAPPI |
Qualcuno si chiederà come mai la presenza o meno di un bikini
minuscolo possa produrre una tale assoluta differenza di trattamento e
spendibilità dal punto di vista pubblicitario/commerciale. Una mia foto
in bikini vale, sul web, commercialmente di più di una mia foto nuda,
perché la prima può essere utilizzata su un sito con pubblicità
mainstream e la seconda no. Quando dico che io il bikini me lo tolgo
perché ho un’etica, anziché vendermi tenedomelo addosso, suscito di
solito l’ilarità di quelli che non capiscono certi meccanismi. Ma come
si spiega, questo apparente paradosso? È la domanda che dovrebbero porsi
tutti quelli che mettono nello stesso calderone la pornografia, la
presunta ipersessualizzazione della nostra società e l’uso improprio del
corpo femminile e maschile da parte dei media e nella pubblicità.